Rosario Pinto |
L’ESASPERATISMO Il secolo del Novecento è quello che ha visto manifestarsi, in campo artistico, numerosi orientamenti di pensiero che hanno caratterizzato ed indirizzato i vari aspetti e le dimensioni stilistiche della produzione creativa, costituendone l’intima ossatura e, in ultima analisi, il fattore pregnante dell’identità. Si è dimostrato, cioè, che il legame stringente degli orientamenti di pensiero, sia in campo filosofico, che ideologico-politico, è molto significativo e pregnante per la prassi creativa, riuscendone ad orientare lo svolgimento attivo e stabilendo che una modalità stilistica non è un mero atteggiamento estetico, ma il più largo dispiegamento d’una Weltanschauung che agisce a tutto tondo. Tutto ciò non è senza ragioni, evidentemente, e non è, in fondo, nemmeno cosa particolarmente inedita: basterà osservare, ad esempio, che il pensiero umanistico, nel Quattrocento, restituisce all’uomo la sua vera ‘dignità’, dopo secoli di contemptus mundi, per comprendere come la svolta masaccesca o quella pierfrancescana non costituiscano affatto un alzata d’ingegno autonoma degli artisti ma, al contrario, un momento significativo che trova puntuale corrispondenza nella realtà civile ed ambientale più vasta. Naturalmente, questo è solo uno dei molti possibili esempi della relazione esistente tra arte e pensiero e vale a restituire maggior credito ad una lettura complessiva del percorso artistico che sia capace di rovesciare l’assunto postbaumgarteniano assumendo che l’estetica è da valutare come teoria della conoscenza e non come ‘scienza del bello’. L’ ‘estetico’, insomma, tende a raccordarsi all’ ‘etico’ ed al ‘politico’, avvertendo, tuttavia, in modo fermo la necessità di sfuggire ad ogni imbrigliamento ingessante di specifiche determinazioni ideologiche o di ancor più volgari spicciole strumentalizzazioni. Il secolo del Novecento ha visto proliferare ideologie, prospettive, dinamiche sociali, orientamenti religiosi in modo particolarmente vasto ed ha assistito al prodursi di immense tragedie, come sono state non solo le due guerre mondiali, ma anche i conflitti etnico-religiosi, gli odi razziali, le profonde ingiustizie sociali, gli squilibri Nord-Sud. Rispetto a tutto ciò e, soprattutto, rispetto a quella aspettativa di benessere diffuso e di pace sociale che ci si sarebbe potuto attendere dalla affermazione d’una cultura della razionalità e della consapevolezza scientifica, non si fa fatica a ritenere che la delusione per il mancato perseguimento di più ambiziosi traguardi sia profonda ed avvertita. Ciò ha determinato insicurezza individuale, caduta delle aspettative, mancanza del senso stesso del ‘futuro’ che appare, oggi, ai più, come un’incerta e nebulosa proiezione di un oggi problematico ed incerto. L’arte, rispetto a queste cose, durante tutto il secolo del Novecento, non è rimasta al palo: si è calata nella mischia, rendendosi interprete delle ragioni di varie posizioni di pensiero e di prassi politica, scegliendo, talvolta, con grande consapevolezza del suo ruolo, di privilegiare l’aspetto ‘contenutistico’ e di porsi come affermazione d’una dirittura ‘segnica’ e scegliendo anche, in altri momenti, di orientarsi, invece, verso scelte meramente ‘formali’ in cui, evidentemente, acquistano rilevanza principalmente gli aspetti ‘simbolici’. Noi, qui, scegliamo di analizzare il primo dei due aspetti, quello di carattere ‘segnico-contenutistico’, essendo quello che ci sembra giusto privilegiare come alveo logico entro il quale ci sembra giusto collocare il dispiegamento dell’azione che svolge il movimento dell’ "Esasperatismo", intorno al quale cerchiamo di ragionare. Nella prima metà del secolo, nel periodo, in particolare, tra le due guerre mondiali, una cultura artistica improntata alla messa a fuoco degli aspetti oggettivi di un processo sociale fortemente problematico, introdusse una rappresentazione dell’esistente in termini di marcata sottolineatura dei suoi aspetti, animando un orientamento creativo nel segno, appunto dell’Espressionismo che diventava designazione non solo, come lo era già stato nel corso dei secoli, di una dimensione ‘categoriale’, ma di un vero e proprio movimento. Di più, l’Espressionismo avrebbe mostrato di poter essere una scelta feconda di molti risultati, non esaurendosi, cioè, nell’ambito d’una mera affermazione delle sue dinamiche ‘stilistiche’ significativamente definite nell’ambito della cultura mitteleuropea tra le due guerre mondiali, ma riuscendo a trasfondersi come esigenza avvertita anche nell’ambito di altri fermenti, come quello, ad esempio, che avrebbe conferito pungente spessore contenutistico all’Espressionismo astratto, al Situazionismo, al Realismo di denuncia e, addirittura, a qualche aspetto particolare dello spesso Iperrealismo e del Pop. La consapevolezza dei contenuti forti propri delle dinamiche espressioniste è ciò che anima, in fondo, lo stesso movimento dell’"Esasperatismo" che nasce nel 2000 da una matura presa di coscienza di Adolfo Giuliani e che presto incontra il favore di un gruppo di artisti napoletani che si convincono ad accostarsi a questa chiamata a raccolta che Giuliani promuove intorno al progetto di costruire un luogo di adesione degli artisti ad un progetto creativo che non imponga una scelta di fede, ma che sia, però, capace di coinvolgere intorno ad un’idea di critica dell’esistente e di additamento di opportunità risolutive. Più semplicemente, Giuliani chiede agli artisti di cimentarsi intorno alle dinamiche dell’esistente, analizzandole nei loro dati ed espungendone un’idea che possa farsi interprete d’uno stato, d’una condizione. Giuliani ha un convincimento, in particolare: quello di individuare un fattore aggregante: egli è convinto, cioè, che al sentire comune che è indirizzato al rifiuto dell’ordine delle cose percepito come ingiusto, lesivo della dignità dell’uomo, violento nei suoi tratti, non debba corrispondere un ordinamento programmatico dei linguaggi figurativi, chiuso negli intendimenti concettuali. Piuttosto, egli immagina che occorra compiere una scelta pragmatica, che individui, cioè, un motivo unificante che non sia cogente e riduttivo, una sorta di icona che possa farsi al tempo stesso punto di orientamento ideale e spendibile immagine di riferimento in virtù della quale indirizzare la produzione creativa senza divergere sostanzialmente dal proprio vissuto, dalle radici formative individuali e personali. Come sempre avviene, insomma, quando l’incipit di una prassi artistica muove da un’esigenza intellettuale prima che spiccatamente creativa, quando, cioè, è l’intellettuale quegli che addita qualcosa all’artista e non questi che impone all’intellettuale di espungere dal dato di una creazione ‘oggettivata’ la prospettiva di una Weltanschauung, il dato unificante del linguaggio creativo non può fare affidamento ad altro che ad un minimalismo referenziale comune che agisca in surroga, nella spendibilità d’azione, della condivisione tra gli artisti d’una linea autonoma ed originale, frutto d’una prassi assolutamente inedita. Fatalmente, ciò che abbiamo indicato come ‘minimalismo referenziale’ finisce col costituire il fattore di riferimento e di aggregazione che non ha certamente tutta la pregnanza del ‘segno’ – e non potrebbe averla, evidentemente – ma che non per questo si attesta necessariamente come ‘simbolo’, depotenziando, in tal guisa, l’eventuale carica ‘contenutistica’ dell’idea sottostante a mera dimensione d’una vaporosità effimera. Avviene, invece, proprio quando lo spessore contenutistico è marcato e segna vigorosamente l’ ‘idea’, come espressione d’un forte ansito contenutistico, che ciò che abbiamo additato come ‘minimalismo referenziale’ si costituisca in ‘icona’ e, come tale, agisca affermando la sua particolare condizione di momento intermedio tra la pregnanza assoluta del ‘segno’ e l’allusività formalistica del ’simbolo’. Come alcune delle particelle primarie della materia, anche l’ ‘icona’
è, però, profondamente instabile e dura un tempo limitato, quello, cioè, entro il quale
andrà ad esaurirsi la sua funzione. Perciò l’ ‘icona’ non può non
evolvere in ‘segno’ o decadere in ‘simbolo’, secondo un processo
storico di cui molti movimenti del secolo del Novecento hanno dato testimonianza. Tale icona Giuliani la individua nel ‘bidone’, il contenitore cilindrico dei
più vari prodotti che costituisce l’emblema della vita stessa: viene riempito e
svuotato, riutilizzato e sbattuto, spostato con gesti bruschi, lasciato rotolare e
sbattere contro altri per finire, alla conclusione della sua esistenza, come un ammasso di
inutile ferraglia. Né sfugge a Giuliani che il ‘bidone’ si accolla anche
significati che vanno oltre la soglia denotativa della sua funzione, diventando
connotazione dispregiativa di ambiguità di pensiero, di atteggiamenti truffaldini, di
speciosità di pensiero, di delusione di progetto. La condizione storica in cui l’"Esasperatismo", come movimento di
pensiero intende muoversi, sarà allora, quella d’una più ampia disamina della
realtà stessa dell’uomo, andando a considerare tutte le variabili che ne configurano
il percorso e che ne definiscono l’esistenza. Dire "Esasperatismo" significa dare nozione d’un concetto profondamente
diverso da quello di ‘esasperazione’. Quest’ultimo termine, infatti,
descrive uno stato della coscienza, una reazione individuale cui si soggiace quando
l’impatto con le avversità esterne raggiungono il punto critico della capacità
reattiva della persona, determinandone uno stato di insofferenza e di malessere
pronunciato che può preludere a spinte comportamentali talvolta anche disdicevoli. L’"Esasperatismo" esprime l’ansia della coscienza proprio nel
momento in cui denuncia l’incongruità d’un progetto di vita che annulla, nel
suo darsi, le ragioni della vita stessa e chiama l’uomo ad interrogarsi e –
forse ancor prima – a fermarsi, ad osservare, a riflettere. Qui, la pregnanza del
‘bidone’ che, evidentemente non può andare oltre i suoi stessi limiti e che
deve necessariamente evolvere lasciando spazio alla produzione d’una modalità
espressiva che annulli la referenza ‘iconologica’ per attingere una dimensione
eidetica. Nell’ "Esasperatismo", infatti, non c’è giubilazione o deriva
‘manieristica’, non c’è il ricorso ad una simbologia fine a se stessa;
c’è piuttosto la coscienza avvertita di dover muovere alla ricerca di un linguaggio,
alla formulazione d’una proposta che non sia il dato grafemico
‘sovrapposto’ al pensiero, ma l’espressione tangibile, appunto,
‘segnica’ attraverso cui il pensiero si sostanzia rendendosi immanente nella
datità stessa dell’opera. L’ "Esasperatismo" è un movimento aperto alla sperimentazione e questa
è la sua grande forza e noi confidiamo che esso abbia le giuste energie per affermare
ciò che, in fondo, giustifica e motiva il suo darsi: una proposta in cui l’
‘etico’ e l’ ‘estetico’ trovino un punto di sutura pur non
sovrapponendosi reciprocamente. |